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UN RICORDO AL FUTURO / LEZ. 6: POETICA DELL’ANALISI

Non potevo lasciare in sospeso la questione delle lezioni di Luciano Berio raccolte nel prezioso libro “Un ricordo al futuro”, il cui titolo racchiude la densità dei concetti che sono concentrati in poco più di cento pagine.
Per me questo è un testo fondamentale, uno di quelli che se proprio fossi costretta a scegliere solo dieci libri da tenere – ah, che crudeltà! Spero non mi capiti mai di trovarmi in una situazione del genere – sarebbe in cima alla lista. Ha tanto da insegnare a tutti, in ognuna delle lezioni, analogamente a quelle di Calvino, le famose “Lezioni americane”.
Chi si occupa di musica per piacere o per lavoro – o entrambe le cose, che meraviglia! – non potrà non sentirsi particolarmente toccato da determinati concetti, che sembrano essere lì apposta per solleticare la nostra mente, porci dubbi, mettere in luce punti focali del fare musicale.

L’ultima lezione, “Poetica dell’analisi”, è forse la più strettamente rivolta a chi la musica la studia o l’ha studiata, a chi, cioè, ha o dovrebbe avere i mezzi per cercare di addentrarsi oltre il solo ascolto.
Quella dell’analisi è una questione spinosa, un affare serio. Capiamoci: da anni musicisti, direttori, compositori e musicologi si impegnano ad analizzare fior fior di partiture per comprendere il fare musicale, e i metodi che impiegano non sono di certo univoci; cosa vuole dirci Berio a questo proposito?
Vorrà forse indicarci una strada su tutte da seguire, una via che chiarisca una volta per tutte quali siano le scelte giuste una volta che ci si trova di fronte a un qualunque testo musicale?
Ovviamente no, sarebbe un discorso insensato. Berio, un’altra volta, ci spinge a riflettere, ad andare oltre [siamo ad Harvard, infondo].

Il nocciolo della questione sta nel rapporto tra la dimensione creativa e la dimensione analitica della musica e nel desiderio – definito ambizioso dallo stesso compositore – di sviluppare un rapporto di interdipendenza tra le due. Siamo spinti a riflettere sui modi in cui poetica e analisi possono coesistere.

“Poetica, seppur in termini molto generali, ha sempre implicato una visione evolutiva del fare musicale e dei criteri che lo guidano. Quando la descrizione di tale visione entra nei dettagli specifici di un’opera, la poetica lascia il passo all’analisi.”

Ma chi è l’analista?
È ben diverso se ad approcciarsi all’analisi è un musicologo, un critico o un compositore; nell’ultimo caso, infatti, si tratterà sempre di una sorta di autoanalisi: egli proietterà sé stesso e il proprio approccio nell’analisi dell’opera.
Il principale strumento analitico del compositore è la sua stessa poetica; lo stesso Berio ha definito ad esempio il terzo movimento della sua Sinfonia come la miglior analisi che avesse potuto fare dello Scherzo della Seconda Sinfonia di Gustav Mahler.
Ma allora poetica e analisi sono sinonimi? No, in quanto:

“una poetica è sempre qualcosa di diverso dai suoi aspetti analizzabili, un po’ come una forma che finisce sempre per essere qualcosa di più e di diverso dalla somma delle sue parti.”

Se il rischio che corrono i compositori è quello di un’eccessiva trasposizione di loro stessi nell’analizzare l’opera altrui, quello che corrono i critici e i musicisti è quello di racchiudersi nelle proprie convinzioni e di usare l’analisi solo per giustificarle, di servirsi cioè dell’opera come un mezzo per confermare le proprie procedure analitiche.
Questo però è un rischio molto grave, perché allontana lo studioso dalla musica stessa; è necessario aver sempre chiaro che l’analisi è un procedimento sensato quando serve a confermare un dialogo incessante tra l’orecchio e la mente.

Il testo musicale, infatti, non è mai solo un unico testo ma contiene in sé la moltitudine di testi che l’hanno preceduto, e di questo ogni analista dovrà tenere conto.
Berio cita il modello semiotico di Jean-Jacques Nattiez che per analizzare un fenomeno musicale teneva conto del suo “triplo modo di esistenza: come oggetto arbitrariamente isolato, come oggetto prodotto e come oggetto percepito”. Se in prima lettura potrebbe sembrare un’idea soddisfacente, in realtà Berio la descrive come una “divisione irrealistica delle responsabilità”, in quanto dibattere delle intenzioni del compositore è un terreno estremamente astratto sul quale non si possono gettare basi per una qualunque analisi solida. In più, in quest’ottica, anche l’ascoltatore diviene un’astrazione; di concreto resta solo l’oggetto prodotto (la partitura), che però viene ridotta anch’essa a qualcosa di immateriale.

Ma l’analisi è più di tutto questo, può essere più di una speculazione teorica, più di uno strumento per la concettualizzazione della musica: se applicata alla trasformazione delle forme sonore, può addirittura diventare un vero e proprio contributo profondo al processo creativo.

C’è uno spazio vuoto che rimane, ed è quello tra le note scritte e il suono. Berio stesso all’interno di questa lezione afferma:

“Le note sono le viti che aiutano a tenere assieme il legno, ma non sono il tavolo.”

Allora sta agli studiosi, qualsiasi sia il loro ruolo, il compito di colmare questo vuoto tra l’analisi dell’organizzazione delle note e la sostanza musicale, per rimanere saldamente ancorati all’ascolto della musica, che è sempre in movimento, mai passiva e che ha saputo e saprà permetterci di aprire percorsi concreti e creativi di una vera e propria poetica dell’analisi.

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